Home Benessere Quando nacque Daria niente fu più lo stesso. II parte

Quando nacque Daria niente fu più lo stesso. II parte

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Violenza sulle donne
Come spesso accade nelle storie di violenza domestica il finale può essere drammatico, ma ci sono altrettante storie “a lieto fine” dove la chiave di volta è la nascita di un figlio
Questo evento è capace di riportare in vita la donna dall’inferno in cui era precipitata. Le narrazioni ci ricordano quanta sofferenza è in grado di tollerare, violenza fisica, psicologica, veder soffocata la femminilità, violate la propria identità.
Una madre non permetterebbe mai che la stessa sorte tocchi al figlio.
Nella migliore delle ipotesi l’ingresso di un figlio le dona la forza per uscire dal baratro, nella peggiore, il figlio crescerà alla mercé della violenza assistita e diventerà per lui il modello di famiglia.
Non esiste un identikit dell’uomo violento e dall’interno della relazione, soprattutto agli inizi, non è facile accorgersi di quello che sta accadendo.
Spesso la consapevolezza per la vittima arriva quando l’annichilimento è tale per cui non è rimasto nulla per cui valga la pena vivere.
I maltrattanti non sono una categoria specifica, sono persone incapaci di sostenere una relazione di coppia senza provare l’esigenza di distruggerla. Questo è spesso il risultato di relazioni infantili estremamente danneggiate.
Incapaci di entrare in contatto con i propri vissuti profondi e di integrare queste precoci esperienze affettive, sono simultaneamente abitati da odio e bisogni di accudimento. Questa ambivalenza, il più delle volte irrisolvibile, si riversa nella coppia trasformandosi in disprezzo e amorevolezza, idealizzazione/attacchi invidiosi.
In genere la risposta della vittima è paradossale, perché si dispiega in un tentativo di proteggere il rapporto che nel frattempo si è creato, giustificando l’aggressore e
negando gli aspetti di violenza.
Inoltre, più il supplizio dura da tempo, maggiore è la difficoltà a uscirne. Ma è soprattutto l’altro aspetto, la “luna di miele”, a risollevarla dal dolore.
Queste esperienze congiunte producono nella psiche un effetto dissociante, in quanto la persona non riesce a integrare questi aspetti in una cornice di lettura realistica proprio per il motivo che li sta vivendo soggettivamente.
Per questa ragione le vittime di violenza appaiono tenacemente attaccate alle loro relazioni.
Tale risolutezza è il frutto di un’esperienza relazionale peculiare, in quanto hanno a che fare con un partner maltrattante.
Dalle storie di violenza balzate alla cronaca si evince che la relazione è ciclica, cioè l’aggressione si presenta in modo intermittente.
Le persone maltrattanti non sono sempre e solo unicamente violente.
Dunque la futura vittima non ha idea che quello che quello che sta nascendo sarà un rapporto violento. Come tutti gli individui metterà in campo i suoi bisogni affettivi, bisogni che la relazione è chiamata a colmare, altrimenti di quella relazione non si senterebbe la necessità.
La stessa non ha a che fare con un uomo che subito la maltratta, ma con qualcuno che a sua volta entra nella relazione sentimentale per soddisfare i suoi bisogni affettivi, per cui si comporterà affettuosamente. La relazione che in futuro sfocerà in violenza domestica si stabilisce sulla speranza del reciproco soddisfacimento di bisogni affettivi.
Da qui l’immensa difficoltà a separarsi.
Per tali ragioni “al principio non si sono accorte di nulla”, tuttavia, quasi tutte le storie di violenza domestica possono essere coerenti con la dinamica del “Ciclo di violenza” (Walker, 1983).
Questa successione si articola in 4 fasi: la crescita della tensione, l’esplosione della violenza, la fase di latenza, le scuse e lo scarico di responsabilità; terminata la quale si ripropone all’infinito.
Da “fuori” si possono cogliere alcuni indicatori. Le persone vicine si accorgeranno dell’estrema gelosia (possesso), il graduale isolamento, una velata tristezza, per non parlare delle tumefazioni in volto…
Anche il “vicino di casa”, che si trovi ad assistere a atti di violenza domestica, specificando che per violenza si intende anche solo alzare la voce, minacciare, non argomentare le proprie posizioni, rompere oggetti, etc. può chiamare le Forze dell’ordine.
A questo punto sarà la pattuglia che giungerà sul luogo a fare un’accurata indagine.
Quando la vittima prenderà coscienza con la realtà, e decreterà che è ora di riprendersi la vita, può contattare uno dei numerosi centri antiviolenza sparsi nel territorio e affidarsi all’esperienza delle operatrici che offriranno un sostegno psicologico e legale. È anche possibile chiamare una delle linee dedicate (ad es. il telefono rosa), oppure rivolgersi direttamente presso i Servizi Sociali del proprio municipio, anche in questo caso entrerà immediatamente in un progetto di protezione.
La soluzione c’è, anche quando non si vede via d’uscita.
Non è importante compiere grandi passi, basta farne uno anche piccolo, nella direzione giusta.
È possibile tornare a godersi la libertà. È ora di riprendervi la vita.
Dott.ssa Elena Albieri psicologa e psicoterapeuta.
Riceve su appuntamento a Fregene e a Roma (tel. 320 9330549)