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Quando nacque Daria niente fu più lo stesso

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Violenza sulle donne
Già durante la gravidanza Lui aveva preso le distanze da me, fisiche, emotive, e questa è la notizia buona
Ripensandoci, quest’annuncio ebbe su di lui l’impatto di una condanna, al confine fra la negazione e la rassegnazione. Del resto non poteva essere altrimenti, io ero tutto per lui, suo il mio
corpo, sua la mia testa, i miei pensieri, il mio presente e futuro. La sola idea di dividermi con qualcun Altro era intollerabile. Ma per fortuna sono stata brava. Per me sono stati mesi vigili,
intensi, di angoscia. “Nulla deve andare storto”, me lo ripetevo come un mantra, altrimenti avrebbe potuto spegnersi anche l’ultima speranza.
Quando scoprì di aspettare un bambino non mi sentii più sola.
Aspettai a comunicarglielo fino a quando non fu più possibile, ero al quarto mese.
Diventare padre non bloccò la sua furia, che seguitò a scaricare su di noi. In quei momenti non faceva differenza chi si trovava di fronte, il suo sguardo invasato cercava soddisfazione.
Quando rincasava cercavo di non incrociare il suo sguardo. Negli ultimi anni ero diventata esperta a capire se aveva avuto una giornata brutta o una meno brutta. Non parlavo per non farlo adirare, una parola sbagliata e sarei diventata il capro espiatorio di una vita ingiusta e di misera appartenenza.
A volta funzionava, altre volte assumevo una posizione fetale e mi focalizzavo su pensieri rassicuranti: “Dolce Daria papà non è sempre così, copriti le orecchie e non ascoltare”.
Quando mi stringeva le mani intorno al collo fino a sentirmi mancare, mi sembrava di sentirla singhiozzare. Sapevo che una volta venuta al mondo le nostre vite si sarebbero aggiustate, in
qualche modo. Quando Lui comprenderà che non lo avrei abbandonato, tutto sarebbe tornato come al principio.
Mentivo a me ovviamente.
Ricordo ancora il giorno in cui lo vidi la prima volta. Credo di essermi lasciata conquistare più dal suo modo di fare che dal suo essere. Sfuggente, tenebroso, sicuro di sé e al tempo stesso fragile.
Non saprei dire se era amore quello che provavamo l’uno per l’altra. Aveva un modo tutto suo di amare. Ma nessuno di questo aveva a che fare con la tenerezza, l’empatia, la fiducia, il rispetto.
Anche nell’intimità era distante e sbrigativo, eludeva le carezze e mi sussurrava: “Sei mia, mi appartieni”. Ero giovane, ma quelle parole mi toccavano nel profondo, il luogo che ho raggiunto,
pochi anni dopo.
Non era un uomo dalle grandi dichiarazioni d’amore, ma quando si dispiaceva tornava con un fiore.
Non so quando tutto ebbe inizio, quando la malignità iniziò a consumarlo, forse già albergava in lui. Come ho fatto a non vedere? Iniziò con qualche blanda critica.
Sbagliavo sempre qualcosa. Cominciai col sentirmi giudicata, forse imbranata, poi irrimediabilmente malfatta.
Eppure non gli facevo mancare nulla. Avevo le premure che solo una madre conosce e, inspiegabilmente, queste avevano su di lui un effetto paradosso. Si infuriava terribilmente. Non sapevo mai come dovevo comportarmi, era spiazzante. Tutto questo aveva su di me un ritorno potente, nel giro di poco tempo aveva annientato le mie resistenze e sradicato le mie radici, credo abbia mutato la mia personalità, ero diventata insicura, immobile.
La prima a saltare fu la palestra, e con lei anche le amicizie. Non esiste l’amicizia, mi ripeteva spesso. Poi la famiglia.
I miei genitori ce l’avevano con lui, era vero in effetti. Feci mia la sua causa e chiusi i ponti con tutti. Intorno a me solo terra bruciata. Era geloso di ogni telefonata, SMS ricevuto, abito indossato, mascara male interpretato, la scelta di un libro da leggere o di una canzone che ascoltavo. Era sua opinione che il telefono era fonte di distrazione e mi tolse anche quello. La follia più grossa furono le mie dimissioni. La situazione era così insostenibile che presi questa accorgimento, stufa di trovare scuse. Ero diventata abile a mentire, rispondevo al mondo che stavo bene, che ero molto impegnata con il lavoro, le uscite. Ma quali uscite. Ci fu un tempo in cui
andavo fuori solo per fare la spesa e pagare le bollette. La chiamavo l’ora d’aria.
Diventarono essenziali come l’aria le mie uscite. Fu in una di quelle che l’idea di avere un figlio
iniziò a materializzarsi. Questo fu il pensiero che mi riportò in vita.
Pensai che l’avrei chiamata
Daria.
Dott.ssa Elena Albieri psicologa e psicoterapeuta.
Riceve su appuntamento a Fregene e a Roma (tel. 320 9330549)