Chi c’era, al Teatro Argentina di Roma, dal 5 giugno 2025, ma sarà in scena fino al 15, ha assistito a un evento raro: la versione italiana di Lazarus, opera rock di David Bowie e Enda Walsh, diretta da Valter Malosti e interpretata da Manuel Agnelli. Un musical visionario, struggente e sperimentale che porta in scena il testamento creativo di Bowie, mescolando teatro, musica e immagini in un viaggio lirico tra vita, morte e identità.
In un teatro carico di attese, torna in scena Lazarus opera rock firmata da David Bowie e Enda Walsh, portata in Italia da Valter Malosti, che ne cura regia e adattamento nella versione italiana. Un’opera che non è solo spettacolo, ma atto finale, testamento, e al tempo stesso rinascita: come il personaggio biblico evocato nel titolo, anche Bowie – tramite Newton – torna a parlarci dalla soglia tra la vita e l’oltre.
Nato come estensione drammaturgica del romanzo di Walter Tevis, The Man Who Fell to Earth, e del suo adattamento cinematografico, Lazarus si pone come epilogo immaginario della parabola del migrante alieno Thomas Jerome Newton, interpretato da Manuel Agnelli. La sua presenza scenica, emaciata, icastica, avvolta in una malinconia elettrica, guida lo spettatore in una dimensione interiore claustrofobica, quasi onirica. Newton non è più un uomo (né un alieno): è un’eco. Un pensiero che cerca ancora la sua forma.
Lazarus è anche e soprattutto il testamento artistico lasciato da David Bowie poco prima della sua morte, avvenuta il 10 gennaio 2016. Scritto in collaborazione con il drammaturgo irlandese Enda Walsh e debuttato a New York nel dicembre 2015, lo spettacolo rappresenta il suo ultimo gesto creativo, insieme all’album Blackstar, pubblicato appena due giorni prima della sua scomparsa. Un’opera che porta con sé l’urgenza di un addio e il coraggio di uno sguardo lucido sulla propria fine, trasformata in visione poetica e teatrale.
Il sipario si apre su una scenografia nera, essenziale e magnetica, dominata lateralmente da una band distribuita su più pedane, quasi come sospesa fuori dal tempo e da uno schermo che proietta gli attori, raddoppiandone le presenze ma che, di scena in scena, si trasforma in una scatola vuota, una sorta di stanza vivente dove si interpreta e si scompone la narrazione. L’effetto è quello di un palcoscenico che diventa mente, corpo e memoria.

All’inizio dello spettacolo, Newton, avvolto in un cappotto rosso rubino, si staglia contro l’oscurità, mentre danzatrici dai capelli blu gli roteano attorno come apparizioni cosmiche: una visione che il palcoscenico girevole enfatizza ulteriormente, trasformando lo spazio scenico in una zona di attrito astrale, dove le forze invisibili del desiderio, del tempo e della perdita si contendono ogni gesto.
La regia di Malosti non rinuncia a momenti di irriverente teatralità, che strizzano l’occhio al culto cinematografico di The Rocky Horror Picture Show (1975, regia di Jim Sharman): come nell’opera di Bowie, anche lì un extraterrestre incagliato sulla Terra funge da specchio deformante delle nostre fragilità umane. Questo omaggio sottile si rivela in alcuni passaggi coreografici e visivi, come nel memorabile balletto di Andrea De Luca, che irrompe in scena vestito da donna, su tacchi alti, insieme al corpo di ballo e a una magnetica Camilla Nigro: un’esplosione di energia glam che riscuote applausi fragorosi dal pubblico, spezzando con ironia e sensualità la tensione interiore del dramma.
A fare da contrappunto alla figura disgregata di Newton, Casadilego incarna la Ragazza e poi Marley con una grazia magnetica: voce cristallina, presenza delicata ma mai evanescente, è un contrappunto spirituale, quasi salvifico, nel caos mentale del protagonista.

Malosti orchestra il tutto come un alchimista del linguaggio scenico, mescolando elementi visivi, sonori e coreografici in un impasto multimediale di grande impatto. Le scene visionarie di Nicolas Bovey, i video di Luca Brinchi e Daniele Spanò, e le luci cesellate da Cesare Accetta trasformano l’interno dell’appartamento/prigione di Newton in un labirinto della mente, un teatro della memoria. I personaggi, le apparizioni, i frammenti e i ricordi si muovono con una fisicità trattenuta e a tratti violenta, grazie al lavoro di Michela Lucenti e Marco Angelilli, mentre le musiche eseguite dal vivo da una band d’eccezione diventano la vera colonna vertebrale emotiva dello spettacolo.
L’anima sonora, come era inevitabile, è il cuore pulsante di Lazarus. La scaletta – da Life on Mars? a This Is Not America, passando per Heroes e l’intensa No Plan – è costruita come una drammaturgia parallela, dove ogni brano si carica di nuove risonanze. Gli arrangiamenti di Henry Hey, raffinati senza essere sterilmente reverenziali, permettono alle canzoni di emergere come confessioni intime.
I brani cantati da Manuel Agnelli, ma anche da Casadilego, Camilla Nigro, Dario Battaglia e il resto del cast, non sono solo dimostrazioni di bravura interpretativa, ma si trasformano in un vero viaggio nel passato, come se fossimo noi gli extraterrestri incastrati nel presente, spaesati, nostalgici, alla ricerca di qualcosa che ci faccia ancora vibrare.
L’unica vera debolezza dello spettacolo, se si vuole essere onesti, sta in alcuni momenti della recitazione, che risultano meno incisivi rispetto alla potenza musicale e visiva dell’insieme. Ma in un musical operistico così ambizioso e complesso, era probabilmente inevitabile non raggiungere il massimo livello anche su quel fronte. Tuttavia, il carico emotivo, la regia densa e la forza delle performance vocali compensano ampiamente questa fragilità.

Ma Lazarus non è solo un omaggio. È una dichiarazione d’intenti. Valter Malosti evita con eleganza la trappola del tributo nostalgico e costruisce invece un’opera viva, densa di simboli, domande e vertigini. La sua regia, pur rispettosa del testo e della partitura originale, riesce a inserirsi con forza nel panorama teatrale contemporaneo italiano come un oggetto scenico anomalo, difficilmente catalogabile: teatro musicale, certo, ma anche installazione performativa, rito laico, sogno condiviso.
L’intero cast, composto da ben 11 interpreti e 8 musicisti, si muove con coesione ammirevole: tra i comprimari spiccano Dario Battaglia (un Valentine viscido e ipnotico), Camilla Nigro (una Elly struggente), Giulia Mazzarino, Andrea De Luca, e il resto della compagnia, capaci di dare corpo e voce a presenze tanto ambigue quanto necessarie.
In definitiva, Lazarus è un’esperienza. Un’opera che non chiede di essere capita fino in fondo, ma ascoltata, vissuta. Un viaggio nella mente di un uomo (di un alieno, di un artista) che ha visto troppo e ora cerca un varco verso l’oblio. O forse verso una forma diversa di eternità.
E mentre risuona l’ultima nota di Heroes, tra le luci basse e il silenzio del pubblico, si ha la netta sensazione che Bowie non sia mai davvero andato via.
Lazarus lascia nel pubblico una malinconia struggente, il senso profondo di non appartenere a questa Terra e il desiderio di fuggire su Marte, un sogno luminoso, forse, ma irrimediabilmente lontano.
Al termine della rappresentazione, una dedica del cast è stata letta da Camilla Nigro, rivolta a tutte le donne che in questo momento non possono più parlare, vittime di femminicidio. Le parole hanno ricordato con forza che questa è la nostra responsabilità, come società e individui.
Ma la riflessione non si è fermata qui: è stata richiamata un’altra realtà drammatica, con un appello urgente a cessate il fuoco in Palestina, un invito a porre fine a ogni violenza e a scegliere la pace.
Infine, con la richiesta di voler contagiare il pubblico di consapevolezza, gli attori hanno esortato gli spettatori a fare rumore, rompere il silenzio e alzare la voce contro ogni ingiustizia.
È seguito un lungo, vibrante momento di applausi, scandito da un’intensa eco di protesta, come a suggellare il potere civile e umano del teatro.