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Lavorare troppo: quando diventa un rifugio dalla vita affettiva?

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Lavorare troppo@pixabay
Lavorare troppo implica un investimento di tempo quasi esclusivamente dedicato all’attività professionale, senza che ve ne rimanga altro per pensare alla vita affettiva

Il lavoro rappresenta una sfera fondamentale per la quotidianità di molte persone. L’identità professionale spesso definisce una parte importante della nostra esistenza: ci garantisce un ruolo nella società, ci permette di sentirci funzionali in determinate mansioni e competenze, rinforza la nostra autostima.

Amare il proprio lavoro e svolgerlo con competenza e responsabilità, senza farsi sovrastare da esso, è una grande abilità.

Nei casi in cui le energie dedicate al lavoro superino di gran lunga quelle utilizzate per le relazioni, bisogna cominciare a porsi alcune domande:

  • Quante ore al giorno mi rimangono per dedicare del tempo a me stesso?
  • Quante relazioni importanti ho coltivato nella mia vita?
  • Ho cose piacevoli da fare durante il weekend?
  • Ho mantenuto degli interessi separati dalla mia attività professionale?
È possibile che il lavoro diventi un rifugio perché, in realtà, si temono le relazioni affettive.

Alcune difficoltà di socializzazione, già presenti durante l’infanzia ad esempio, vengono esorcizzate attraverso la dedizione allo studio. Intensificare le competenze tecniche legate alla performance può aiutare a non sentirsi totalmente esclusi da un contesto, ed avere un riconoscimento da parte degli altri.

Il lavoro diventa un alibi, una scappatoia, anche in quelle situazioni in cui non si riesce ad affrontare un problema specifico nella relazione di coppia o familiare. Non è raro, infatti, ascoltare affermazioni di questo tipo:”sto meglio in ufficio che a casa”; “meno male che lunedì torno a lavorare”.

Il vuoto relazionale o l’incapacità di gestire relazioni già esistenti rappresentano una problematica importante e, in queste circostanze, il lavoro funge da difesa.

Non si tratta più, allora, di dedizione, di senso di responsabilità o passione per la propria professione, bensì di una vera  e propria strategia disfunzionale.

Molte sono le conseguenze sulla qualità di vita: solitudine, incomprensioni irrisolte con i familiari, senso di fallimento, rischio di burn out e stress da lavoro correlato.

Il rischio è quello di investire eccessivamente in un’unica area della propria vita riponendo aspettative di soddisfazione che non sempre la professione può garantire. 

Lavorare nobilita l’uomo, si suol dire… ma la qualità delle nostre relazioni e la cura che abbiamo per noi stessi rimangono la spia che ci fa capire se abbiamo raggiunto un reale benessere.

“Il lavoro è una manna quando ci aiuta a pensare a quello che stiamo facendo. Ma diventa una maledizione nel momento in cui la sua unica utilità consiste nell’evitare che riflettiamo sul senso della vita”
(Paulo Coelho)

“Prova costume. Un problema di autostima”.