Home Montesacro Zio Willy: l’immondizia shakespeariana e moderna

Zio Willy: l’immondizia shakespeariana e moderna

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“Che spazzatura è Roma,
che immondizia, che frattaglia, quando è a servizio
di una questione così volgare come illuminare
una cosa così vile come Cesare!”
(Giulio Cesare, I, 3)
Nei due cosiddetti “drammi romani” – “Tito Andronico” e “Giulio Cesare” (per questa volta tralascio volutamente gli altri due, “Antonio e Cleopatra” e “Coriolano”) – Roma non ci fa una gran bella figura.
“Ingrata”, viene apostrofata più volte, unico aggettivo inoltre che ricorre in entrambi i drammi.
Nel “Tito” (dramma fantastico, immaginifico, pieno di simboli, quasi mitologico), noi Romani siamo “furiosi ed impazienti” e non sopportiamo “i rivali in amore”.
E poi  “la corte dell’Imperatore è come la casa della Fama, / il palazzo pieno di lingue, di occhi e di orecchie; / i boschi sono spietati, tremendi, sordi e cupi”;  insomma, la nostra città “non è altro che una landa di tigri”; è “orgogliosa”; qui abitano “uomini dal volto triste, cittadini e figli di Roma, / divisi dai tumulti, come un volo di uccelli selvaggi / dispersi dai venti ed alte raffiche di tempesta”.
Sfido ogni Romano che abbia una minima coscienza a non riconoscersi in questi versi.
Il “Giulio Cesare” è molto più socio-politico, nel senso che – ripercorrendo vicende storiche realmente accadute, e non immaginarie come nel “Tito” – fotografa perfettamente le relazioni sociali di noi figli della Lupa, le nostre cospirazioni quotidiane (di alto o basso livello).
Pare di vedere i personaggi della tragedia imbottigliati nel traffico e intanto tramare le prossime mosse della scalata ai vertici; oppure a pranzo o a cena nei tanti ristoranti della Roma “ufficiale”, quelli dove si fanno gli incontri giusti, dove le riunioni continuano in sordina (ma più machiavelliche ancora) davanti a un buon piatto di carbonara servito dal padrone del ristorante che sempre ne ha viste passare di ogni, e che non esita a commentare con falsa bonarietà, con quel cinismo scanzonato e divertente (e miserevole) proprio anche dei tassati, ad esempio, che non  ne possono più di doversi fare strada fra tutti questi automobilisti egocentrici ed incazzati…
Insomma, qualunque Romano potrebbe andare avanti per pagine e pagine nel raccontare le nostre favole giornaliere.
La colpa è di Antonio – nel “Giulio Cesare” – che, rimasto solo, rivolgendosi al cadavere di Cesare appena pugnalato a morte, e nascondendosi dietro quella gelida ipocrisia (che noi Romani conosciamo benissimo!) verso gli stessi assassini, silenzio adatto però a meditar vendetta, in cuor suo ci ha invece maledetti tutti: “una maledizione accenderà le membra degli uomini; / furia domestica e feroce guerra civile / graveranno su tutte le parti d’Italia; / sangue e distruzione saranno così usuali, / questioni orrende così familiari, / che alle madri non resterà che sorridere quando contempleranno / i loro bambini squartati dalle mani della guerra, / ed ogni pietà soffocata dall’abitudine alle azioni più turpi”(GC, III, 1).
Perché a Roma (e forse poi in tutta Italia), la colpa è sempre di qualcun altro. L’immondizia, le riunioni di condominio, i concorsi, il traffico, i tombini… non sono altro che meravigliose occasioni: meravigliose occasioni per continuare a mangiarsi il fegato. O no?
Tutte le traduzioni sono di E. Petronio

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