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Elizabeth Strout : Mi chiamo Lucy Barton

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Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout

Einaudi, Maggio 2016

Elizabeth Strout tratta con molta passione l’argomento del rapporto madre-figlio, sottolineandone le mancanze e i difetti, anziché i gesti e le parole di amore esposti.

 

Un libro intenso, che racconta una storia d’amore ancestrale: quello di una madre per una figlia e di una figlia per la madre.

Un racconto semplice di 2 soli personaggi principali, Lucy e sua madre, che esauriscono la storia in soli 5 giorni; in un luogo non troppo felice per entrambe cioè l’ospedale.

È la storia di una donna, ormai adulta, malata,  che riceve inaspettatamente la visita della madre al suo capezzale.

La sua adorata madre, difettosa, e incapace di dimostrarle amore durante gli anni della  sua crescita.

Arriva dopo anni di assenza, con un aereo, solo per lei, per starle vicino, per rimediare a tutto il male del mondo con la sola presenza.

 

Ancora una volta quindi il legame familiare rappresenta un nodo irrisolto per la storia dell’uomo.

Il contenuto del romanzo è soprattutto basato sui dialoghi frammentati di una madre e una figlia, che pur amandosi alla follia, non riescono a superare la miseria, le incomprensioni, e, lo squallore della vita passata, durante l’infanzia di Lucy.

I dialoghi sembrano respiri, gemiti, le frasi sono interrotte e nascondono nel “non detto” tutto il dolore e il rancore per ciò che non è stato e non sarà mai.

Quello che colpisce è la capacità della Strout di trasmettere con pochissime frasi, o frammenti di frase, tutto il malessere taciuto da entrambe le donne, incapaci di parlare apertamente del loro passato. Celando, dietro i fallimenti e le fragilità della vita altrui, la miseria della loro storia.

Così si ritrovano a parlare dei matrimoni finiti e di progetti falliti degli altri, stando sempre attentissime a non riferirsi al loro passato sporco di uno squallore ancora più tragico.

”E’ il fondo del barile di chi siamo…questo bisogno di snobbare gli altri per sentirci superiori”.

Nei dialoghi interrotti o sottintesi, le due donne ritrovano l’affetto l’una per l’altra.

La figlia perdona le mancanze della madre, capendo che con la sua presenza può espiare in parte le colpe nei suoi confronti.

Capisce che è una madre imperfetta, e, che anche lei, madre a sua volta, è imperfetta.

Così dà un valore assoluto a quei piccoli gesti dimostrativi, come quello di prendere l’aereo per la prima volta nella sua vita, solo per starle vicino.

O, a quello di chiamarla affettuosamente “bestiolina”.

Nonostante i silenzi, le frasi a metà, i sospiri carichi di significato, le due donne si beano l’una della vicinanza dell’altra riuscendo a godersi quell’intimità preziosa, mai avuta in precedenza.

Questa presenza inaspettata, permette a Lucy di ragionare sul suo passato fatto di violenze e di povertà.

Di fare il punto della sua situazione attuale, frutto di scelte dettate dalle paure derivanti proprio dai suoi trascorsi tormentati.

Come la paura della solitudine, che da sempre la attanaglia, e le fa trovare conforto nelle dolci parole di persone sconosciute, a cui si aggrappa con tutta sé stessa. Con tutta la speranza di una sé ancora bambina, che chiede disperatamente aiuto affinché non venga inghiottita dall’abisso di tristezza in cui, spesso, si ritrova, senza saperne il perché.

 

Questo romanzo va letto tutto d’un fiato e tra le righe, intuendo i rancori irrisolti tra le due donne. Immaginando il dolore che non viene mai esplicitato direttamente.

L’autrice, non usa giri di parole, non esprime un giudizio. Racconta e basta, ciò che succede alle persone.

Questa durezza genera un pensiero profondo nel lettore.  Poiché comprende l’amore viscerale di un genitore per un figlio e viceversa, un affetto nascosto sotto la polvere che negli anni si è accumulata.  Cumuli di polvere che  vengono  spazzati via da piccoli gesti come quello di una madre che “sfrutta” la malattia della figlia per sopperire a tutte le sue mancanze standole semplicemente accanto.

Lucy non potrà far altro che raccontare la storia delle sue origini e della sua famiglia “insana”, per esorcizzare il pericolo di subirne troppo le conseguenze. Troverà, mantenendo la giusta distanza dai ricordi, il modo di raccontare la sua storia mettendola per iscritto, e per trovare la salvezza…”perché ognuno di noi ha solo una storia da raccontare”.

 

 

Elizabeth Strout è una scrittrice statunitense che ha vinto il premio Pulitzer nel 2009 per il suo romanzo “Olive Kitteridge” e il premio bancarella nel 2010 per lo stesso romanzo.

Ha pubblicato sempre per Fazi “Resta con me” e “Amy e Isabelle”. È passata a Einaudi con “Mi chiamo Lucy Barton” nel 2016 e “Tutto è possibile” nel 2017.

Carla D’Aronzo